Un nuovo tipo di giornalismo è possibile. www.ilsegnonews.it

lunedì 30 aprile 2012

Antipolitica: non potevamo indignarci prima?

Con l'allontanamento di Silvio Berlusconi da palazzo Chigi, la politica ha perso quell'aspetto buffonesco a cui eravamo stati abituati negli ultimi anni. Il merito non era tutto suo. Tra le file del suo partito, il Popolo della Libertà, i "pessimi elementi" avevano un ruolo di alta caratura. Per non parlare del partito di coalizione, la Lega Nord, portatrice dei valori del "celodurismo" e allo stesso tempo fedele compagna di un governo che ben poco si interessava del cosiddetto federalismo. Ma vogliamo discutere dell'opposizione? Il Partito Democratico, la vera alternativa al governo, il grande partito di centrosinistra. Oppure dell'Unione di Centro, una riproposizione in stile bonsai della Democrazia Cristiana. Oppure l'Italia dei Valori del grande buontempone Di Pietro, ex cane da guardia della politica, ora perfettamente integrato negli ingranaggi istituzionali. Per non parlare degli altri partiti, nati prima e durante la legislatura, che lasciano il tempo che trovano. Il Cavaliere al governo era come un ombrello: tutti sotto di lui, chi a difenderlo chi ad attaccarlo. Bastavano quei due minuti quotidiani per accertare la propria presenza in Parlamento, dichiarazioni standardizzate, qualche urlo, gesto o emissione sonora, e le televisioni avevano qualcosa da mandare in onda, giusto per ricordare che “lavorano” ancora per noi. A quante baggianate abbiamo assistito?
Però il sentimento dell'antipolitica si sta coltivando solo ora. Sembra che il governo tecnico del poco amato Mario Monti non tenga proprio a diventare simpatico ai cittadini. L'aumento indecente della pressione fiscale favorisce questo processo e il continuo mantenimento dello status di casta (dei tagli alla politica non si vede nemmeno l'ombra) infervora gli animi più accesi. Se poi si considera il triste e crescente numero di imprenditori che si tolgono la vita per l'impossibilità di mandare avanti la propria azienda, il disprezzo delle istituzioni avanza a passi da gigante. E queste sono solo alcune cifre dello scenario italiano nel 2012. Dato il quadro della situazione bisognerebbe non lasciarsi trasportare dalla demagogia, come ha suggerito il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano? Io credo che si tratti più di incazzatura, con tutto il rispetto per l'alta carica dello stato.
La posizione politica di ogni individuo va rispettata e tutelata, perché appartenente alla sua sfera privata. Ma è possibile che il popolo italiano si sia reso conto di avere una classe politica inadeguata solo quando si è visto decurtare gran parte dello stipendio? È accettabile per una democrazia avanzata la presenza di corrotti, mafiosi, faccendieri, ladri, arrivisti e trasformisti nelle aule dove si decide il futuro di una nazione? È possibile che non ci vergogniamo di essere rappresentati da certe persone? Bisogna sempre ricordare come il panorama politico attuale è figlio dei governi precedenti. Tutti sono colpevoli. Se questo è un governo criminale, allora gli altri dovremmo accusarli di concorso di reato. Se ciò che vogliamo è una caccia alle streghe allora tutte, ma proprio tutte, devono andare al rogo. Pur sapendo che questo, purtroppo, non ci risolleverà dalla terribile situazione che stiamo vivendo.

sabato 28 aprile 2012

Quando lo spazzino fa carriera e diventa operatore ecologico

Noi italiani siamo proprio unici. Amiamo differenziarci, complicare le cose quando sarebbero in realtà estremamente semplici. Riempirci la bocca per non dire nulla. Beh in questo siamo speciali. Dobbiamo ammetterlo. Seguiamo la moda. Anche quella semantica e linguistica. Ci stiamo abituando a significare il nulla. Sfiorando l'assurdo, rasentando il ridicolo. Ma forse ci crediamo più furbi degli altri violentando all'estremo la nostra lingua. Negli ultimi tempi si è cercato di rendere nobili, affibiando con la forza titoli e qualifiche, alcune mansioni lavorative. Come se queste ultime fossero orfane di un nome. Assistiamo così impotenti ad annunci di lavoro dove vengono richieste come figure professionali quelle di operatori ecologici e scolastici. Non sarebbe meglio definirli semplicemente spazzini e bidelli? La ricerca spasmodica di una maggiore autorevolezza nel definire alcune attività lavorative sembrerebbe mostrare una presunta inferiorità latente delle stesse. C'è forse da vergognarsi se una persona lavora come bidello o spazzino? Forse gli altisonanti appellattivi inorgogliscono a tal punto i fautori del political correct fino a fargli perdere la reale dimensione del tutto. Banale dire che qualsiasi lavoro onesto è gia di per sè dignitoso. Ma c'è una professione che mi diverte più di tutte. Quella delle "professioniste del sesso". O "escort" se l'elitarismo vi si addice di più. Proviamo a giocare con le parole. Immaginate un amico che vi dica: "ho visto una escort appoggiata ad una lanterna semaforica". Che cosa vi viene in mente? Una macchina incidentata su un palo della luce o una prostituta appoggiata a un semaforo? Fortunatamente viene in mio soccorso Nicolò Ghedini, l'avvocato di Berlusconi, che proprio in questi giorni ha fatto il punto della situazione chiarendo una volta per tutte l'annosa questione. Con estrema semplicità e aggiungendo spunti per la riflessione. Ha così definito "escort" le ragazze coinvolte nelle cene di Arcore mentre il suo assistito, più che maggiorenne, sarebbe stato solamente l'"utilizzatore finale" delle stesse. Questa proprio non la sapevo. C'è sempre da imparare. Grazie ancora Ghedini. Dio l' abbia in gloria.

venerdì 27 aprile 2012

L'Aquila, tre anni dopo: una piccola luce in fondo al tunnel?

L'Aquila, 6 aprile 2009. Una fortissima scossa di terremoto. Poi solo morte, desolazione e paura. L'Aquila, 27 aprile 2012. Tre anni dopo. Nulla, o quasi è cambiato. Il cuore della città è fermo. Sembra ancora lontano il ritorno alla normalità. Eppure di tempo ne è  passato ma nessuno ha fatto niente. Il fiume dell'ipocrisia ha trovato il proprio percorso in un flusso inesorabile di parole. Se le promesse, poco dopo il triste accaduto, suonavano come una viva speranza a cui aggrapparsi, il silenzio di questi ultimi mesi ha il sapore della beffa. Spenti i riflettori, esaurita l'onda emotiva tutto è restato tale e quale a tre anni fa. L'Aquila non è ripartita. Ne sono testimoni i cittadini. Ne sono testimoni i nostri occhi nel vedere una città, per certi versi, fantasma. Ci sono ancora da rimuovere il 95% delle macerie. Un dato, a dir poco, agghiacciante. Più che di ricostruzione sarebbe giusto parlare di un'operazione di marketing. Una corsa sfrenata di rilancio, già poche ore dopo il terremoto, a cui tutti volevano partecipare. Governo e istituzioni in testa. Ma al momento di tradurre in fatti e azioni concrete le belle parole di circostanza un silenzio assordante ha preso il sopravvento. Le belle promesse cadute nel dimenticatoio. Vedere ancora dentro le abitazioni, o quello che resta, vestiti stesi sullo stendipanni, post-it con la lista della spesa e promemoria della giornata attaccati al frigorifero è terribilmente angosciante. E' proprio il vissuto quotidiano quello che manca di più. Nonostante gli abruzzesi, plasmati nel carattere e abituati a lottare in una terra con un clima duro e un terreno impervio non si sono mai inginocchiati davanti al loro destino. Si sono rialzati fin da subito con una dignità straordinaria. Ma questo non basta. Non può e non deve bastare. I cittadini devono essere presi per mano dalle istituzioni. Non abbandonati nell'oblio con promesse fatte e mai mantenute. Troppo facile così. Ma forse solo il fatto di parlarne, di tirare nuovamente fuori l'argomento può servire. Serve attenzione, serve che la luce dei riflettori mediatici torni ad illuminare la scena. Ma il tutto non deve essere fine a se stesso. Questa volta non sarebbe accettabile. L'Aquila e gli aquilani  hanno tutto il diritto di vedere spuntare un pò di luce in fondo al tunnel. Basta buio. Le ombre dei ponteggi sui palazzi ricordano quelle della corruzione sugli appalti. Basta omertà.

Moschea, o non moschea, questo è il dilemma


E continuarono a pregare per strada. Non è un titolo di un film ma la dimostrazione dei musulmani genovesi per far valere i propri diritti. Domenica 22 aprile si sono radunati in piazza Caricamento. Non per minacciare, attentare o insultare. Ma semplicemente per pregare. Lo stereotipo che fin troppi italiani si sono costruiti non potrà di sicuro vacillare per così poco. Ma che lo si creda o no, i musulmani sono scesi in piazza per far valere il  diritto ad avere un luogo di culto adatto alle loro esigenze. Già nel 2001 la comunità islamica ha acquistato un terreno adibito alla costruzione di una moschea. Quattro anni più tardi ha ottenuto il permesso per iniziare i lavori, ma ancora oggi si assiste a una fase di stallo. Ora i musulmani genovesi devono sperare nelle vaghe promesse dei candidati sindaco alle comunali di maggio per ottenere un centro di preghiera, il quale potrebbe sorgere in un posto differente rispetto a dove la comunità ha comprato il terreno.
Non è la prima volta che le comunità islamiche in Italia sono costrette a pregare in mezzo alla strada, anche e soprattutto per farsi notare. Il paradosso che lega visibilità alla manifestazione, qualche volta scaturita in violenza, è una regola imprescindibile dei nostri media. A Milano nel 2009 i musulmani hanno pregato in piazza Duomo. Sempre nel capoluogo lombardo gli scontri tra gli abitanti di viale Jenner e i fedeli del centro islamico hanno tenuto banco per lungo tempo. Le stesse iniziative promesse alla comunità genovese sono le stesse fatte a quella milanese, con lo stesso risultato oltretutto: il nulla totale. Segno di un profondo "menefreghismo" delle istituzioni nei confronti di una religione che, parliamoci chiaro, ha un altissimo tasso di devoti nel nostro paese.
L'articolo 19 della Costituzione della Repubblica Italiana recita: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». Evidentemente l'Islam è contrario al buon costume. Loro sono violenti, loro sono arretrati, loro non rispettano le donne. Sono i cliché più diffusi, no? E se ci rispondessero che le truppe italiane sono tuttora in Iraq e in Afghanistan, che nonostante lo "sviluppo economico" siamo ancorati a un'economia che sta crollando a picco e che, stando alle ultime statistiche, nel nostro Paese muore una donna ogni tre giorni, potremmo ancora avere il coraggio di fare certe affermazioni?
Il passaggio più difficile dello sganciamento da uno stereotipo non è cambiare idea, ma perdere la sicurezza di quella costruzione sociale, stabilendo perfettamente l'idea del bene e del male, e dover ricominciare tutto da zero. L'integrazione passa da qui e non ci sono alternative. Non si può pretendere che gli altri accettino la nostra cultura e le nostre regole se non gli garantiamo nemmeno il diritto di pregare in un luogo sicuro e degno di una società civile.

mercoledì 25 aprile 2012

Il muro di parole per oscurare il 25 aprile

Da qualche anno a questa parte è sempre la stessa storia. Il 25 aprile, data simbolo della liberazione dall'occupazione nazifascista in Italia, è sempre al centro di polemiche bipartisan. Da una parte abbiamo la "sinistra" italiana che porta il 25 aprile come valore fondante di tutti gli italiani. Peccato che poi effettui delle differenziazioni a sfondo politico su chi possa avvalersene o meno. Dall'altra parte abbiamo una "destra" che rifiuta il 25 aprile come festa nazionale, poiché la liberazione fu esercitata versando il sangue di altri italiani. Sarebbe più accettabile chiamarla festa della libertà, dicono.
Il quadro che si presenta è terribilmente complicato. La sintesi presentata è estremamente scarna e non tiene presente di tutte le posizioni assunte da isitituzioni, partiti, sindacati, organizzazioni, associazioni e personalità varie. Ognuno ha strappato uno spazio su un giornale o un minuto in televisione per esprimere la propria idea su questo tema. Risalgono a questa mattina le ultime dichiarazioni in merito. Parole, parole, parole. Il rischio è di formare una muro, eretto e sostenuto da tutte le dichiarazioni di questi anni, in grado di oscurare la memoria del 25 aprile, così da oscurare il vero significato di questo giorno.
Ogni anno, con una precisione quasi maniacale, si compie uno delitto. Si compie uno stupro ai danni di una festa che ci coinvolge, in quanto figli e nipoti di coloro che hanno perso la vita per la causa. Il fascismo, che lo si accetti o meno, è stato una piaga del nostro paese. Ci ha portato di forza in un conflitto da cui non potevamo che uscirne perdenti. Ha ragione chi dice che prima della caduta di Mussolini erano tutti fascisti e dopo tutti favorevoli alla Repubblica. Ma è nella natura degli italiani dividersi in fazioni rivali. Fascisti o antifascisti, neutralisti o interventisti, Berlusconi o comunisti, Coppi o Bartali. Ma è necessario schierarsi anche oggi? Sentiamo il bisogno di valutare il 25 aprile giusto o sbagliato? Avvertiamo la necessità di contrastarlo? Percepiamo il pericolo di un ritorno del fascismo? Smettiamo di stuprare il 25 aprile, smettiamo di usurpare una festa nazionale, smettiamo di ignorare i sacrifici dei nostri padri, smettiamo di non essere italiani almeno per un giorno!

Ku-China: l'Italia a tavola vista dal Paese asiatico

                                              In diretta da Perugia

La cucina cinese parla sempre più italiano. Almeno in parte. Negli ultimi anni è andata intensificandosi l'importazione di prodotti italiani nel Paese asiatico. Aceto balsamico, vino e olivo d'oliva sono solo recentemente comparsi in ogni supermercato cinese. Ma come è avvenuto questo passaggio? Il made in Italy sul mercato cinese è il frutto di una vera e propria campagna di educazione per informare il Paese asiatico sui prodotti tipici italiani e i relativi usi. I social media, la stampa e la televisione sono stati fondamentali nel diffondere la cucina italiana. Ma non solo. Un contributo fondamentale è fornito dai molteplici blog che parlano dell'enogastronomia made in Italy. Alcuni esempi di questo allargamento interculturale? Negli ultimi anni sono comparse tre gelaterie a Shangay oltre a numerosi ristoranti che promuovono la qualità italiana nel settore della ristorazione. Questo è, però, solo il primo passo. E' necessario che il gemellaggio culinario Italia-Cina prosegua sollevando interesse a riguardo. Deve crearsi un trait d'union che consolidi il tutto. In Cina c'è un detto: "la bontà del vino verrà presto riconosciuta". Ciò evidenzia come vi siano, almeno sulla carta, aspettative e premesse per un'ulteriore diffusione. Si potrebbe, pertanto, affiancare ai grandi eventi in Cina manifestazioni e degustazioni che possano avvicinare ancora di più i cinesi alla nostra cucina. Oltre alla possibilità di creare nuove trasmissioni televisive tematiche. Yang Xiaolei e Lawrence Lo, due tra i più importanti giornalisti televisivi cinesi, con le loro trasmissioni, portano avanti questo progetto. In Cina si conoscono solo due tipologie di pasta. Inoltre sono ignorati alcuni "riti gastronomici" come l'aperitivo e non si conoscono altri tipi di cotture che non prevedano la frittura degli alimenti. Questo esprime le limitate conoscenze che il Paese asiatico possiede. E' necessario andare oltre. Non fermarsi alla conoscenza stereotipata che associa l'Italia a tavola solamente alla pasta e alla pizza. Illustrare la grandissima varietà della cucina italiana all'estero è estremamente attuale. Culturalmente un'occasione appagante. Economicamente una possibilità per entrambi i Paesi. Da non perdere.

Meeting dei movimenti dei giornalisti precari italiani: si può sopravvivere con tre euro ad articolo?

                       In diretta da Perugia

Il precariato investe l'ampia categoria, in termini numerici, dei giornalisti italiani freelance. La carta di Firenze (http://www.odg.it/files/carta%20di%20firenze_def_0.pdf) in tal senso dovrebbe rappresentare uno strumento di coordinamento per contrastare la miopia degli editori che tendono a tenere il giornalismo sotto una campana di vetro. Il 7 e l’8 ottobre 2011, a Firenze, l’Ordine dei giornalisti ha indetto la manifestazione "Giornalisti e giornalismi–Libera stampa liberi tutti" per ridare una nuova dignità alla professione, contro lo sfruttamento e per un’informazione di qualità come è stato annunciarlo da Enzo Iacopino, presidente dell'Ordine durante la presentazione del programma stesso. La Carta di Firenze non è però applicata concretamente. Da quando tale strumento deontologico esiste solamente tre casi si sono appoggiati alla Carta; questo rappresenta, quindi, un parziale fallimento. Occorre dare vigore, nuova linfa e pubblicizzare su larga scala la Carta di Firenze affinchè questa possa rappresentare realmente un mezzo di difesa e tutela per i precari. In ballo non c'è solo il futuro giornalistico delle nuove generazioni. Il problema è globale in quanto investe il mondo dei freelance nella sua totalità e complessità. Occorre superare gli ostacoli e le barriere mentali che associano il variegato movimento freelance ad un giornalismo di scarsa qualità. In quanto indipendente propone, infatti, un'informazione più libera e trasparente. Siamo giunti a un bivio: sottostare ai ricatti a cui l'ovattato mondo del giornalismo ci sottopone quotidianamente o dare nuova dignità all'informazione scardinando il sistema? Si può lavorare per tre euro ad articolo? Si può vivere, o meglio sopravvivere, con la sola professione giornalistica? E' giusto che le tasse pagate con la partita IVA siano maggiori delle reali entrate? Tanti gli interrogativi. Una sola la soluzione: il cambiamento.

lunedì 23 aprile 2012

International Journalism Festival (Perugia 25-29 aprile 2012)

Ci siamo. L'International Journalism Festival (http://www.festivaldelgiornalismo.com/), arrivato alla VI edizione, si appresta ad aprire i battenti.
Nella magnifica cornice perugina si parlerà di giornalismo, informazione, libertà di stampa e democrazia secondo il modello 2.0. Il festival è a ingresso libero e completamente gratuito. Occorre ricordare che la promozione dell'evento avviene solo attraverso social media e social network. La vera innovazione di questa importante manifestazione è il suo carattere "democratico": il giornalismo si pone come un gioco in cui davvero tutti possono partecipare attivamente con confronti, interventi sul campo, dibattiti e proposte. E' un giornalismo "dal basso" ma non per questo qualitativamente inferiore. Anzi. Gli spunti e le premesse sono davvero interessanti: 200 eventi e più di 450 speaker ed esperti protagonisti dell'informazione animeranno keynot speech, incontri-dibattito, workshop, presentazioni di libri, premiazioni, concorsi, serate teatrali e documentari. A proposito di questi ultimi è doveroso ricordare che domenica 29 aprile verrà proiettato il documentario "Concordia: io c'ero" realizzato da Doc-lab per National Geographic Channel dove il montaggio di alcuni filmati amatoriali mostrerà gli ultimi istanti della recente tragedia che si è consumata davanti alle coste dell'Isola del Giglio.
Tra gli ospiti della manifestazione: Carlo Antonelli (direttore Wired), Contu Luigi (direttore ANSA), Tiziana Ferrario e Maria Luisa Busi (Tg1), Mauro Casciari (Le Iene), Salvemini Michele (cantante, in arte Caparezza) e Marco Travaglio (vicedirettore de Il Fatto Quotidiano). 

Per essere sempre aggiornato sugli eventi dell'International Journalism Festival consulta quotidianamente il blog. Carta di identi-libertà sarà infatti presente a Perugia durante tutto il corso della manifestazione.

Una nuova adesione al progetto


La mia visione di carta di identi-libertà? Probabilmente è proprio per rispondere a questa domanda che ho accettato con grandissimo entusiasmo la proposta di partecipazione al blog da parte di Andrea. Non è una missione che intendo intraprendere. Voglio solo dimostrare, con gli articoli e con il tempo, come basti poco per guardare più lontano. Non sono così presuntuoso da poter affermare di diffondere un modo migliore di pensare. Basta davvero poco, tutto qui.
Carta d'identi-libertà si propone nel modo migliore per muoversi in quella nebbia, in quel luogo di incontro e di confine delle culture. Quel luogo dove molti aspetti sono condivisi, ma nessuno lo può vedere. Quel luogo dove le differenze sono storpiate ed enfatizzate per diffondere la paura, la principale arma per allargare il controllo. Sarà interessante proporre argomenti diversi in totale libertà, come suggerito dal nome stesso del blog. Infatti saremo liberi e liberi saranno coloro che, qualora lo vorranno, commenteranno i nostri interventi.
Proverò a intraprendere questo viaggio insieme a tutti quelli che vorranno seguirci, sperando di non cadere mai nel banale e nello scontato. Sarò maggiormente soddisfatto nel vedere reazioni negative, così da riuscire a creare il dibattito. Ciò che manca davvero nel nostro Paese.

domenica 22 aprile 2012

Saluti dalla Svizzera. Anzi no, dal Marocco

Osservate questa fotografia. La vostra mente e i vostri ricordi correranno in Svizzera o in Austria. Ebbene, niente di tutto questo. Ci troviamo in Marocco precisamente a Ifrane, piccola cittadina situata a 1650 metri d'altezza sul Medio Atlante. Edificata nel 1929 durante il Protettorato francese venne progettata secondo lo stile architettonico dei paesi alpini tanto da essere soprannominata "la piccola Svizzera". La sua vista è del tutto inaspettata per chi non ne conosce l'esistenza. Per arrivarci bisogna percorrere il primo tratto di una strada di montagna che collega Fès con Marrakech. Il primo impatto con questa cittadina è a dir poco sorprendente e sbalorditivo. I paesi che la precedono non fanno presagire a un cambiamento così repentino. I sensi ne sono colpiti. Le emozioni ne sono una logica conseguenza. Si scopre così un tratto del Marocco inaspettato e del tutto estraneo alle conoscenze preconfezionate e stereotipate che si hanno di questo Paese. Dai mille volti e dai mille colori. Adesso nella nostra tavolozza da pittore che disegna i colori della conoscenza  ne possiamo, con certezza, collocare uno in più: il bianco della neve di Ifrane.

venerdì 20 aprile 2012

Il dissuasore dell'emigrazione: un mestiere nuovo?

Tutto parte da una mia ossessione. Approfondire e comprendere il reale significato delle migrazioni. Stringendo il campo di ricerca ai flussi che dall'Africa portano all'Europa. Provare a toccare con mano il fenomeno e penetrare i codici e le regole interne che inducono quotidianamente numerosi migranti a spingersi, o provare a farlo, nel nostro continente. Capire le logiche che portano a mettere in ballo la propria vita sobbarcandosi viaggi al limite del sovraumano. Europa percepita alla partenza come porto sicuro, miraggio e occupazione. Ma anche Europa sentita all'arrivo come delusione, sfruttamento e emarginazione.
Ma l'aspetto che mi interessa maggiormente è la rete organizzativa che porta fisicamente il migrante nel nostro continente. Il dietro alle quinte dell'emigrazione.  Nel nostro viaggio virtuale si incontra così la figura dell'intermediario, il passeur, che assume diverse definizioni: tchaga, connection man, cokser. Le persone che si riconoscono in queste etichette costituiscono l'anello di congiunzione tra chi fornisce il servizio del viaggio e chi ne vuole usufruire. Senza dimenticare i ruoli degli autisti e dei recruteurs, i reclutatori che vendono i contatti "giusti" agli exodants.
C'è, però, qualcosa che colpisce ancora di più la mia attenzione: il meccanismo attraverso il quale si dissuade il migrante a compiere il viaggio della vita. L'ottimo reportage di inchiesta "A sud di Lampedusa" di Stefano Liberti ha, almeno in parte, risposto a qualche mia domanda. Molto spesso quest'opera di dissuasione è frutto di accordi segreti tra Paesi. Italia e Libia per qualche anno, a partire dal 2000, ne sono stati un esempio. Lampante ma celato nello stesso tempo, per volontà dell'asse Berlusconi - Gheddafi.
Ma c'è un'altra figura "creata" ad arte da alcune organizzazioni non governative attratte dalla prospettiva scintillante dei fondi europei: il "dissuasore". Mestiere nuovo - verrebbe da dire. Il dissuasore sarebbe il frutto di un progetto di sensibilizzazione finanziato dalla Commissione Europea a cui aveva aderito insieme a due organizzazioni maliane. Ma in cosa consiste il suo lavoro? Semplicemente nel persuadere i propri connazionali, mediante l'ausilio di giganteschi cartelloni stradali indicanti diversi pericoli (AIDS, abusi sessuali, sete, schiavitù, tratta, morte) a non effettuare il viaggio. Ecco quindi svelato il programma "Verità sull'immigrazione illegale verso l'Europa": provare a contrastare l'arrivo di migranti sul suolo europeo fingendo di avere a cuore i rischi cui gli stessi sono sottoposti. Niente di più semplice. Niente di più subdolo.

mercoledì 18 aprile 2012

La morte di Morosini: il canovaccio (quasi) perfetto per i media

Non avrei voluto scrivere queste parole. Dure, ruvide, scomode. Fa male dire ma soprattutto sentirsi fare certi discorsi. Ne sono consapevole. Ma fa ancora più male lucrare sull'immagine di un povero ragazzo di 25 anni che purtroppo non c'è più. Se ne sono sentite di tutti i colori in questi giorni. Tutti, o quasi, hanno cavalcato l'onda del macabro festival allestito appositamente per questo triste evento. Per alcuni, forse, addirittura un'opportunità da sfruttare per emergere. Insistere sulla sfortuna famigliare che ha contraddistinto la vita del giovane calciatore è solo un aspetto della spettacolarizzazione del sua morte. Angosciante se vogliamo. Ma i media non si sono fermati. Anzi hanno rincarato la dose. Abbiamo assistito impotenti in ogni palco televisivo ad una tragedia che tristemente ricalca il canovaccio perfetto preconfezionato per buona parte del giornalismo italiano. Tutti gli elementi al posto giusto: la morte, un ragazzo di soli 25 anni, una famiglia in cui la cattiva sorte si è accanita contro, il “teatro” dove si è inscenata la tragedia, la diretta televisiva degli ultimi attimi di vita dell'atleta. Mancava solo un particolare a rendere il tutto paradossalmente “perfetto”. Nel copione preesistente dell'agenda mediatica sarebbe stato meglio che Morosini non fosse stato economicamente agiato. Ma nulla è perduto. Marco Liorni, durante la “Vita in diretta” di oggi pomeriggio ha annunciato testualmente che il ragazzo, tra le altre sfortune, “non era ricco”. Forse in Serie B si vive di stenti? È stata forzatamente distorta anche una delle note positive pubbliche che ha contraddistinto la vita del calciatore. Per calcare ancora di più la mano su una tragedia.
Potreste, però, obiettare che se Morosini non fosse stato ricco oltre a essere un personaggio pubblico in quanto sportivo, il raggio della risonanza mediatica sarebbe stato tristemente ridotto. Anche voi avete le vostre ragioni. Ribadisco che la morte, almeno per i media, non è uguale per tutti.
Il tutto è stato inoltre condito da interviste a giocatori che pur non conoscendo direttamente il giocatore si arrogavano il diritto di fornire giudizi di valore sulla persona, sull'uomo. Ma questo agghiacciante teatrino non conosce limiti. C'è anche chi, con le ripetute cadute e i vani tentativi di rialzarsi del giocatore ha intravisto in questi gesti un ultimo saluto ai rispettivi famigliari deceduti dello stesso Morosini.
È bello giocare con le parole e con le metafore. È, però, meno bello giocare con la morte. Specialmente per quella degli altri. Ogni tanto dovremmo ricordarci di una parola: umanità.


martedì 17 aprile 2012

Turismo e sostenibilità: un binomio possibile?

"Il vero viaggio di scoperta
non consiste nel cercare
 nuove terre ma nell'avere
 nuovi occhi".
Marcel Proust


Turismo e sostenibilità: binomio che stride in un'epoca come la nostra, frutto di un processo inarrestabile di globalizzazione e di una logica di mercato che vuole tutto e subito.
Ma un binomio altrettanto affascinante e suggestivo che parla di valori: identità, rispetto e riconoscenza. Valori che, se lasciati affiorare nella loro purezza e semplicità, sono capaci di offrirci in cambio un dono raro e prezioso: la ricchezza. Una ricchezza interiore, un accrescimento culturale intessuto di ricordi, scoperte, emozioni. Ricchezza sì ma senza prezzo. Il turismo è fonte di ricchezza, lavoro, ammodernamento. Ma, talvolta, il suo sviluppo, a fronte di indiscussi "benefici", avviene in modo scellerato, producendo risvolti dannosi per l'ambiente, il territorio e le comunità locali. E' pertanto necessario coniugare il giusto equilibrio tra le aspettative del turista senza dimenticare il rispetto dell'ambiente oltre a garantire una più equa ripartizione della redditività ottenuta dalla gestione del flusso turistico. Il tutto si gioca su un filo sottile. Occorre non spezzarlo. E' necessario intraprendere un viaggio in cui il confronto diretto con luoghi e persone siano la chiave di accesso per una conoscenza più pura. Il turismo sostenibile non deve però cadere nella trappola di rimanere confinato all'interno di nicchie elitarie. Può e deve diventare un modo alternativo di fare vacanza di massa. Ma il cambiamento deve essere sinonimo di maggiore apertura mentale. E' doveroso andare oltre gli stereotipi e le false e superficiali convinzioni che popolano il nostro presunto sapere per comprendere al meglio le numerose culture e i popoli. La distanza fisica e mentale deve essere abbattuta. Il viaggio deve essere integrazione della diversità. Perché, ricordando Gandhi "dobbiamo essere noi stessi il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo".

Il turista di massa



domenica 15 aprile 2012

Il caso Morosini: la macabra spettacolarizzazione della morte

Per me un sabato pomeriggio come tanti altri a seguire allo stadio la squadra del cuore. Ore 16:50: al termine della partita leggo sul tabellone dell'impianto sportivo genovese che la partita Pescara-Livorno è stata rinviata. Maltempo penso. Mi reco comunque nel primo bar dello stadio con una televisione in bella mostra per saperne di più e, mio malgrado, vengo a conoscenza della morte per arresto cardiaco del calciatore livornese Morosini. Da quel momento non ho neanche il tempo per riprendermi dalla notizia che inizia il tam tam mediatico. Le reti sia pubbliche che commerciali a suon di frasi retoriche preconfezionate mostrano sequenzialmente le immagini della doppia caduta dello sportivo prima di accasciarsi per un'ultima volta sul manto erboso. I diversi canali si contendono l'audience nel cercare di mandare per prime e il più velocemente possibile le tragiche riprese attestanti la morte. Come se si stesse mostando alla moviola l'esistenza o meno di un fuorigioco. Ma stavolta in ballo non c'è un goal. C'è la vita di una persona. Neanche la morte, quindi, ha più una dimensione privata. Non importa se avviene in uno stadio dove ci sono migliaia di persone. Attiene, o meglio dovrebbe farlo, ad una sfera intima. La morte mostra così spietatamente il suo carattere democratico e crudele allo stesso tempo. Democratico perchè non guarda in faccia a nessuno: colpisce indistintamente giovani, anziani, uomini, donne, ricchi e poveri. Crudele perché si porta con sè un ragazzo dalla vita già travagliata e difficile: senza genitori, un fratello recentemente morto per suicidio e una sorella con un handicap. A dimostrazione che i soldi possono aiutare ma non sono tutto.
Ma più cinico e spietato è stato il mondo dell'informazione, con poche eccezioni, che ancora una volta ha dato vita al macabro reality della spettacolarizzazione della morte. Le immagini e le fotografie fungono abilmente da complemento a servizi e ad articoli ma in casi come questo sono così necessarie? Forse disseteranno la volontà voyeuristica di molti italiani. Una volontà voyeuristica che, troppo spesso, non conosce limiti. Infine, pur con il massimo rispetto per un ragazzo che purtoppo non c'è più, è tragedia solo se i media ne parlano? La morte, almeno per alcuni media non è uguale per tutti e non ha lo stesso peso nella bilancia dell'informazione. Bilancia che pende a favore di un certo tipo di cultura. Lascio a voi il compito di giudicare la stessa.

mercoledì 11 aprile 2012

Gli svizzeri ci fanno paura? Il razzismo linguistico

Avete mai provato sdegno, paura e diffidenza per uno svizzero? Non è anche lui un extracomunitario? Certamente lo è. Anche se l'equazione extracomunitario uguale svizzero suona male alle nostre orecchie e fa sorridere. Ma non è colpa nostra. O, almeno in parte, non lo è. Siamo quotidianamente bombardati a livello mediatico (casualmente in periodi pre-elettorali) a colpi di "emergenza immigrazione", "allarme extracomunitari" e così via. Ci sarà un'invasione degli svizzeri allora? Chiaro che no. Per noi la parola extracomunitario è sinonimo di povertà, illegalità, sovversività. Per noi l'extracomunitario è l'albanese, il rumeno, il marocchino di turno che bussa alle nostre porte. A questo punto la nostra abitudine e la nostra pigrizia culturale hanno la meglio e si impadroniscono impropriamente di termini che presentano altri significati. Se la denotazione di extracomunitario è quella che indica un soggetto che non possiede cittadinanza in una comunità (come l'Unione Europea) la connotazione più frequente indica uno stato di clandestinità da parte dello stesso. Senza distinzione alcuna sulla provenienza, sulla regolarità o meno dal lavoro, sulla motivazione che lo ha spinto a intraprendere il viaggio.
Inoltre il sentimento che si cela dietro la parola "extracomunitario" non è forse lo stesso di quello che ha generato il termine "terroni"?
Ecco, quindi, emergere una nuova forma di razzismo, quello linguistico. Esasperato da un mondo globalizzato dove la velocità è la parola chiave e la riflessione non trova spazio.

martedì 10 aprile 2012

Permesso a punti per gli immigrati: cosa c'è dietro?

Come si può facilmente  leggere sul sito  del Ministero dell'Interno ( http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immigrazione/accordo_di_integrazione/) dal 10 marzo di questo anno è entrato in vigore il nuovo permesso di soggiorno a punti per gli immigrati che intendono entrare in Italia per la prima volta. L'accordo di integrazione alla base di questo meccanismo stabilisce che gli stranieri di età superiore ai 16 anni e fino ai 65 dovranno, nell'arco di due anni, accumulare crediti per poter rimanere nel nostro Paese. Come? Mediante un esame di lingua italiana, lo studio dei principi fondamentali della Costituzione, la frequenza a corsi di educazione civica., l'affitto regolare o l'acquisto di una casa, lo svolgimento di attività economico-imprenditoriali, titoli di studio, onorificenze e attività di volontariato. Il libretto di profitto sarà invece decurtato in caso di reati, condanne penali e sanzioni pecuniarie. I crediti di partenza saranno 16 e, passati due anni, lo Sportello Unico per l'immigrazione effettuerà la verifica: se il punteggio sarà pari o superiore ai 30 crediti il permesso verrà rilasciato per una durata non inferiore ad un anno, diversamente sarà espulso. Chiaro e semplice no?

L'altra faccia della medaglia. Le obiezioni e punti critici di tale permesso di soggiorno a punti ovviamente non mancano. Innzanzitutto bisognerebbe assicurarsi che questo costituisca una reale integrazione dei migranti nel tessuto socio-economico nazionale. In seconda analisi il provvedimento tende ad avere un impatto puntivo e vessatorio ispirato, perlopiù, a una visione securitaria dell'immigrazione che guarda i soggetti coinvolti solo come necessaria e provvisoria forza lavoro. Come dimostra il fatto che il permesso a punti regolamenta l'età precisa del migrante. E' innegabile che l'immigrato offre evidenti vantaggi di tipo economico e sociale in quanto il suo rapporto di lavoro con la società di destinazione è legato da un sottile e subdolo gioco di ricatto. Altra osservazione. Se l'educazione civica è davvero così importante perché non darle nuova linfa nell'istruzione scolastica statale? E di getto: siamo così sicuri che i politici italiani che ci rappresentano conoscano i principi della Costituzione? E' altresì utile segnalare come i test di conoscenza della lingua italiana vengono già svolti nei CPT (Centri territoriali Permanenti); sarebbe pertanto necessario non sovrapporre le competenze e regolamentare con assoluta precisione le singole funzioni dei soggetti in campo. In conclusione le richieste di tale soggiorno a punti appaiono sproporzionate poiché è reale la difficoltà dei migranti a trovare un'occupazione regolare. Senza pensare alla reticenza dei proprietari degli immobili. Viene così alla luce l'inesistenza giuridica di moltissimi stranieri con la loro condizione virtuale di non-persone, collocati in un limbo da cui possono essere, da un momento all'altro, allontanati. Un limbo che, difficilmente, diventerà paradiso.

lunedì 9 aprile 2012

La parodia di Ralph Linton: esiste la purezza delle culture?

L'Occidente si arroga il diritto di decidere quali sono le culture che si devono incontrare. Il tutto è acuito e amplificato dall'11 settembre. Ma siamo sicuri che esista una purezza delle culture? O, forse, siamo in una "società liquida" basata sull'interculturalità? Ha, quindi, ragione di esistere un'ossessiva teoria di etichettamento delle culture?
A tal proposito è emblematica la celebre parodia che l'antropologo Ralph Linton era solito proporre ai suoi studenti nella prima lezione:



“il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente domesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Si infila i mocassini inventati dagli indiani e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche.

Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’ Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’ Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’ antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del diciassettesimo secolo.

Andando a far colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’ antica invenzione della Lidia. Al ristorante il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina, il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del sud, la forchetta ha origine medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’ originale romano. Prende il caffé, pianta abissina e mangerà delle cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’ Asia minore.

Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un abitudine degli indiani d’ America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico.

Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giornale, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania.

Mentre legge se è un buon cittadino conservatore ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano.

Fonte: R. Linton, Lo studio dell'uomo, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 359-60.

Sete di libertà. Nell'informazione, nella vita.

Siamo tutti assetati di libertà. O quasi. Nell'informazione, nella vita. Questo blog nasce dall'idea che si possa arrivare ad una conoscenza più diretta e pura dei migranti e delle loro supposte culture di partenza. Senza retaggi culturali. Ognuno di noi è un'identità frutto di diverse maglie culturali che indossiamo ma che possiamo togliere in ogni momento. Io vi chiedo di spogliarvi solo di tre cose: stereotipi, pregiudizi, false credenze. Dentro la carta di identità di ciascuno di noi ci sono solo dati. Precisi e fissi. Ma dietro a ogni foto si nasconde una persona con mille variabili. Se ci lasciamo andare con la mente i contorni si fanno via via più labili e sfumati. Come dice l'eco poetico delle parole di Amadou Hampaté Ba: maa ka maaya ka ca a yere kono. In bambara significa: "le persone di una persona sono numerose in ogni persona". Occorre, soprattutto, dare voce a chi non ne ha per conoscere le numerose culture, i differenti stili di vita, le diverse se non opposte prospettive. Occorre avvicinarsi, conoscere ciò che si ignora, addentrarsi in realtà fisicamente e mentalmente  lontane da noi. Affinché questo viaggio di conoscenza non sia esclusivamente virtuale. Già Seneca aveva compreso il tutto e raccomandava: "al momento dell'imbarco fate che il viaggiatore abbia cura di non portare in viaggio se stesso. Molti uomini non ritornano migliori di quando sono partiti. Si portano con sé nel viaggio". Un viaggio che non presuppone per forza lo spostamento. Un viaggio che trova spazio nella quotidianeità. Solo così tutti potremmo parlare da pari. Pari quali nasciamo. Pari quali siamo, realmente, nella vita. O, meglio, dovremmo essere. E pazienza, se tornando per un attimo alla foto della carta d'identità, questa risulterà sfocata e mossa.