La tregua
Cent'anni di solitudine
La
tregua esprime sentimenti totalmente contrari all'idea comune del
viaggio. Quando si pensa al viaggio, immaginiamo il soggetto
cosmopolita, l'uomo che abbandona tutto e comincia a camminare per
ritrovare o scoprire se stesso. Into the wild, per intenderci.
La tregua non è nulla di tutto ciò. Qui il viaggio non
assume connotati positivi. Non c'è una vera volontà di spostarsi,
se non quella intrinseca del desiderio di ritornare a casa. Come ben
noto, Primo Levi passa circa un anno in un campo di concentramento
nazista, dopodiché viene liberato dai russi e inizia la lunga
traversata che, lentamente, lo riporterà in Italia. Così potrà
riabbracciare i suoi cari. La strada da percorrere non sarà facile.
Sicuramente una passeggiata rispetto ai soprusi che ha dovuto subire
ad Auschwitz. Ma la perdita dell'identità, della cognizione di
sentirsi un essere umano, è peggio della morte. Questo sentimento di
smarrimento perenne lo accompagna mentre attraversa l'Europa
distrutta dalla furia infantile delle potenze in guerra. Sangue,
macerie e polvere: questo incontrerà nel suo cammino.
L'empatia
con Levi è inevitabile. La fame rabbiosa, vorace e insaziabile
causata dal dramma di Auschwitz fa brontolare lo stomaco al lettore.
Il dolore causato dalle scarpe rattoppate provoca vesciche
immaginarie. Il sole caldo e pallido delle sterminate pianure russe,
vissuto dopo il gelo del Lager,
riscalda il corpo e il cuore. Un viaggio cieco, guidato da altri,
senza mai obiettare e domandare. La fiducia è l'ultima cosa che è
rimasta e sembra impossibile dopo l'inferno vissuto qualche mese
prima. La fatica è leggermente alleviata dalla meta sempre più
vicina e, alquanto illusoria, speranza di tornare a casa. Casa,
l'ultimo obiettivo. Quell'immagine che non sembrava più reale è lì,
basta crederci. Forse il messaggio che ci vuole dare Primo Levi è
proprio questo: se non smetti di camminare, forse, un giorno, ci
arriverai.
Cent'anni di solitudine
La
solitudine non è un sentimento semplice da comprendere. Non è un
sinonimo di stare da soli, è qualcosa di più. Non è una condizione
meramente fisica: la solitudine può accompagnare il nostro cuore, la
nostra mente e il nostro spirito. Può indossare abiti diversi. Può
essere la mancanza di una donna, il continuo inseguimento di un
desiderio indefinito, la ricerca spasmodica della tranquillità
attraverso la baldoria, la ricerca ossessionata del sapere che porta
alla follia.
Ma Cent'anni
di solitudine non è solo questo. È
una delle documentazioni più importanti di una cultura a noi
sconosciuta, quella sud americana. Questo viaggio durato cento anni è
osservato dalle finestre della dimora dei Buendìa, fondatori della
piccola città di Macondo. Questa famiglia è la protagonista delle
vicende che si susseguono nel libro. Come ogni famiglia ha
personalità diverse e contrastanti, solo una cosa accomuna tutti: la
ricerca di qualcosa che non si ha. La condizione terribilmente umana
della fatica e della fame viene accompagnata da un universo surreale,
fine ed elegante allo stesso tempo, che difficilmente cede spazio
alla banalità. Il rapporto con la politica è quello che ha segnato
la storia di tutti i paesi: il governo è in grado di cancellare e
riscrivere il corso degli eventi. Che novità!
Il viaggio,
la guerra, i tradimenti, gli incesti, sono sintomi dell'impossibilità
dei personaggi di provare amore. È
in questo modo che Márquez
vuole illustrarci il concetto di solitudine. Nonostante tutto la
famiglia non si sfascia, grazie all'impegno delle donne. Sono le
donne che tengono unita la famiglia, sono le donne che condizionano
la vita degli uomini e, in certi casi, sta a loro decidere sulla vita
o sulla morte dei loro compagni. Il sesso è brutale e sensuale allo
stesso tempo. Questo deriva dall'illusione dell'amore provata dai
personaggi.
Un
aspetto importante è quello dell'accesso alla casa. Il riferimento è
alle due figure che guidano la famiglia durante questi cento anni:
Ursula e Fernanda. Ursula, la vera figura materna di tutta la
generazione, vuole tenere le porte sempre aperte, non importa chi
entra e quale sia la sua intenzione. Non bisogna avere la paura dello
straniero e del viaggiatore, ma accoglierlo e assicurarsi che possa
trovare assistenza e divertimento. Fernanda è l'opposto: è
l'emblema di come l'Occidente abbia cambiato la cultura sud
americana. Cambia la struttura della casa, vuole le finestre e le
porte sbarrate. Non accoglie nessuno, nemmeno i parenti lontani in
fuga dalla violenza e dalla paura. La paura dell'esterno e del
passato accompagnano la sua figura fino alla sua morte, sola.
Partire
Autore: Tahar Ben Jelloun, nato a Fès (Marocco) nel 1944. Poeta romanziere e giornalista ha vinto il Premio Gouncourt nel 1987. Tra i numerosi romanzi occorre ricordare Creature di sabbia, 1987; Il razzismo spiegato a mia figlia, 1998, con più di 40 edizioni; L'Islam spiegato ai nostri figli, 2001; Non capisco il mondo arabo, 2006. Per il profondo messaggio contenuto nel volume Il razzismo spiegato a mia figlia, nel 1998 gli è stato conferito il "Global Tolerance Award" dal Segratario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan. Nel 2002 ha ricevuto dal Centro Pio Manzù la Medaglia del Senato della Repubblica Italiana.
Il romanzo è incentrato sul tema del "partire" e l'eventuale cambiamento per Azel El Arab, il ragazzo protagonista della storia, è visto come la chiave del desiderio: Partire, in un modo o nell'altro. Sentire di prendere il volo. Correre sulla sabbia gridando la propria libertà. Lavorare, realizzare, produrre, immaginare, fare qualcosa della propria vita. Un aspettativa comune a tanti giovani stranieri che viene però sgonfiata dagli anziani di Tangeri: l'Europa non ne vuole sapere di noi. L'Islam le fa paura. Emerge, quindi, come la diversità, ciò che non si conosce direttamente genera timore. Come ribadiscono nuovamente i tangerini più grandi: E se voi volete sloggiare, partire, lasciare il paese, andate pure dagli europei, ma loro non sono lì che vi aspettano, o meglio, vi aspettano con dei cani, dei pastori tedeschi, delle manette e un calcio nel sedere; voi credete che lì ci siano lavoro, comodità, grazia e bellezza ma, poveri voi, lì ci sono solo tristezza, solitudine, grigiore c'è anche denaro, certo, ma non per coloro che arrivano senza essere invitati.
Ma la tentazione di vedere migliorate le condizioni di vita è troppo forte per non approdare in Europa e Azel accetta di cedere il proprio corpo alle avance sessuali di Miguel, un ricco catalano, pur di vivere in Spagna.
A una speranza che tocca la curiosità e sfiora l'eccitazione, il migrante si trova a dover fare i conti con una realtà tremendamente diversa da quella prospettata. Così scrive Azel sul suo diario: Sai dal Marocco si vede la Spagna, ma qui non succede il contrario. Gli spagnoli non ci vedono, se ne fregano di noi, non sanno che farsene del nostro paese; confesso che sono deluso: mi sento insofferente, svuotato, stanco.
In conclusione è utile ricordare come, nell'opera di Tahar Ben
Jelloun, a scontrarsi non sono due culture (islamica e occidentale)
ma semplicemente due persone: Azel e Miguel. All'interno di questi
due personaggi i confini sono poco definiti in quanto
il protagonista, diversamente da quello che gli stereotipi potrebbero
far pensare, non abbraccia le religione dell'Islam mentre
l'antagonista finisce per diventare musulmano. Questo dimostra
l'infondatezza di una cultura pura e ci ricorda come siamo
“camaleonti culturali”.
Un romanzo lacerante, intenso e intessuto di emozioni dove il confine tra la fantasia e la realtà si fa sempre più labile e sfumato. Fino a scomparire.
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