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mercoledì 18 aprile 2012

La morte di Morosini: il canovaccio (quasi) perfetto per i media

Non avrei voluto scrivere queste parole. Dure, ruvide, scomode. Fa male dire ma soprattutto sentirsi fare certi discorsi. Ne sono consapevole. Ma fa ancora più male lucrare sull'immagine di un povero ragazzo di 25 anni che purtroppo non c'è più. Se ne sono sentite di tutti i colori in questi giorni. Tutti, o quasi, hanno cavalcato l'onda del macabro festival allestito appositamente per questo triste evento. Per alcuni, forse, addirittura un'opportunità da sfruttare per emergere. Insistere sulla sfortuna famigliare che ha contraddistinto la vita del giovane calciatore è solo un aspetto della spettacolarizzazione del sua morte. Angosciante se vogliamo. Ma i media non si sono fermati. Anzi hanno rincarato la dose. Abbiamo assistito impotenti in ogni palco televisivo ad una tragedia che tristemente ricalca il canovaccio perfetto preconfezionato per buona parte del giornalismo italiano. Tutti gli elementi al posto giusto: la morte, un ragazzo di soli 25 anni, una famiglia in cui la cattiva sorte si è accanita contro, il “teatro” dove si è inscenata la tragedia, la diretta televisiva degli ultimi attimi di vita dell'atleta. Mancava solo un particolare a rendere il tutto paradossalmente “perfetto”. Nel copione preesistente dell'agenda mediatica sarebbe stato meglio che Morosini non fosse stato economicamente agiato. Ma nulla è perduto. Marco Liorni, durante la “Vita in diretta” di oggi pomeriggio ha annunciato testualmente che il ragazzo, tra le altre sfortune, “non era ricco”. Forse in Serie B si vive di stenti? È stata forzatamente distorta anche una delle note positive pubbliche che ha contraddistinto la vita del calciatore. Per calcare ancora di più la mano su una tragedia.
Potreste, però, obiettare che se Morosini non fosse stato ricco oltre a essere un personaggio pubblico in quanto sportivo, il raggio della risonanza mediatica sarebbe stato tristemente ridotto. Anche voi avete le vostre ragioni. Ribadisco che la morte, almeno per i media, non è uguale per tutti.
Il tutto è stato inoltre condito da interviste a giocatori che pur non conoscendo direttamente il giocatore si arrogavano il diritto di fornire giudizi di valore sulla persona, sull'uomo. Ma questo agghiacciante teatrino non conosce limiti. C'è anche chi, con le ripetute cadute e i vani tentativi di rialzarsi del giocatore ha intravisto in questi gesti un ultimo saluto ai rispettivi famigliari deceduti dello stesso Morosini.
È bello giocare con le parole e con le metafore. È, però, meno bello giocare con la morte. Specialmente per quella degli altri. Ogni tanto dovremmo ricordarci di una parola: umanità.


2 commenti:

  1. Ciao, non posso che essere d'accordo.
    Come al solito il disporre senza sforzi di materiale già di per sé narrante, ancor prima che utile per la narrazione, fornisce a un certo corpus di media (quasi sempre i soliti) un "grado zero" da cui partire per provare il gusto tutto auto compiacente del non resistere alla tentazione di aggiungere e aggiungere, il più delle volte completamente a sproposito. Bisognerebbe ricordare a questi pazienti artigiani del ricamo giornalistico intessuto sulle storie tragiche che il loro lavoro, il più delle volte, finisce per funzionare da cortina di fumo per i reali problemi che certe vicende, nel loro dramma, potrebbero invece fare uscire allo scoperto.
    E così in questi giorni non si è per nulla parlato, se non in rari casi, del pressapochismo che ha permesso l'assenza di un defibrillatore a bordo campo durante una gara sportiva ufficiale.
    Probabilmente non avrebbe salvato la vita del povero Piermario Morosini, ma non c'è dubbio che la presenza di un defibrillatore potrebbe risultare decisiva in tanti altri casi, potrebbe salvare altre vite.
    Pressapochismo malattia tutta italiana. E credo che anche questa sarebbe stata una storia da raccontare.

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  2. "I pazienti artigiani del ricamo giornalistico" rendono alla perfezione il concetto di una trama ordita e precostituita. Si può essere d'accordo sul pressapochismo visto come malattia tutta italiana. Si può, però, fare un'ulteriore osservazione. Adesso scatta la fase 2 del giornalismo nostrano: il gioco delle responsabilità, le polemiche del caso e verrà mostrato l'utilizzo del defibrillatore. Non appena le luci dei riflettori mediatici perderanno di intensità fino a spegnaersi bisognerà aspettare il triste arrivo di un'altra tragedia prima vedere di "moda" determinati temi. E' giusto che della sicurezza e di apparecchi che possano salvare la vita delle persone se ne parli sempre.

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