E
continuarono a pregare per strada. Non è un titolo di un film ma la
dimostrazione dei musulmani genovesi per far valere i propri diritti.
Domenica 22 aprile si sono radunati in piazza Caricamento. Non per
minacciare, attentare o insultare. Ma semplicemente per pregare. Lo stereotipo che fin
troppi italiani si sono costruiti non potrà di sicuro vacillare
per così poco. Ma che lo si creda o no, i musulmani sono scesi in piazza per far
valere il diritto ad avere un luogo di culto adatto alle loro
esigenze. Già nel 2001 la comunità islamica ha acquistato un
terreno adibito alla costruzione di una moschea. Quattro anni più
tardi ha ottenuto il permesso per iniziare i lavori, ma ancora
oggi si assiste a una fase di stallo. Ora i musulmani genovesi devono
sperare nelle vaghe promesse dei candidati sindaco alle comunali di
maggio per ottenere un centro di preghiera, il quale potrebbe sorgere
in un posto differente rispetto a dove la comunità ha comprato il
terreno.
Non
è la prima volta che le comunità islamiche in Italia sono costrette
a pregare in mezzo alla strada, anche e soprattutto per farsi notare.
Il paradosso che lega visibilità alla manifestazione, qualche volta
scaturita in violenza, è una regola imprescindibile dei nostri
media. A Milano nel 2009 i musulmani hanno pregato in piazza Duomo.
Sempre nel capoluogo lombardo gli scontri tra gli abitanti di viale
Jenner e i fedeli del centro islamico hanno tenuto banco per lungo
tempo. Le stesse iniziative promesse alla comunità genovese sono le
stesse fatte a quella milanese, con lo stesso risultato oltretutto:
il nulla totale. Segno di un profondo "menefreghismo" delle
istituzioni nei confronti di una religione che, parliamoci chiaro, ha
un altissimo tasso di devoti nel nostro paese.
L'articolo
19 della Costituzione della Repubblica Italiana recita: «Tutti
hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in
qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di
esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti
di riti contrari al buon costume». Evidentemente
l'Islam è contrario al buon costume. Loro sono violenti, loro sono
arretrati, loro non rispettano le donne. Sono i cliché più diffusi,
no? E se ci rispondessero che le truppe italiane sono tuttora in Iraq
e in Afghanistan, che nonostante lo "sviluppo economico"
siamo ancorati a un'economia che sta crollando a picco e che, stando
alle ultime statistiche, nel nostro Paese muore una donna ogni tre
giorni, potremmo ancora avere il coraggio di fare certe affermazioni?
Il
passaggio più difficile dello sganciamento da uno stereotipo non è
cambiare idea, ma perdere la sicurezza di quella costruzione sociale,
stabilendo perfettamente l'idea del bene e del male, e dover
ricominciare tutto da zero. L'integrazione passa da qui e non ci sono
alternative. Non si può pretendere che gli altri accettino la nostra
cultura e le nostre regole se non gli garantiamo nemmeno il diritto
di pregare in un luogo sicuro e degno di una società civile.
C'è un'altra litania che viene spesso ripetuta da chi serba gelosamente lo stereotipo dell'islamico terrorista-invasore-culturalmente arretrato. La cito perché è di costruzione antica ma di diffusione su larga scala piuttosto recente. È quella "Nei loro paesi mica le vogliono le chiese cristiane".
RispondiEliminaOvviamente non si considera che la storia recente ha registrato afflussi massicci da quei paesi verso i nostri, e che le motivazioni sono principalmente di natura macroeconomica. Ed è dai tempi delle crociate che non si verifica un ingente flusso contrario.
Gli avvenimenti decretano che sia qui che viene fatto il faticoso tentativo dell'integrazione, e non lì.
È come, dopo cena, non offrire all'ospite il suo dessert preferito perché supponiamo a priori che lui non userebbe altrettanta attenzione e gentilezza nei nostri confronti, se fossimo noi i suoi ospiti. Una cultura arretrata si, lo farebbe.