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venerdì 11 maggio 2012

Occidentalizzazione? No grazie, ho smesso


Quante volte abbiamo dovuto ascoltare, senza voler ribattere, più per quieto vivere che per disinteresse, descrizioni stereotipate sulle altre culture? Questi nel loro paese si spostano sui cammelli, puntano tutto sull'agricoltura, non sanno cos'è un personal computer, non sono civili, sono arretrati e così via. L'ostentata sicurezza con cui si eleva la cultura occidentale, considerata sinonimo di modernizzazione, è decisamente presuntuosa e inopportuna. Un excursus storico delle relazioni internazionali permette un'analisi più approfondita dell'argomento. In questo senso è utile il contributo di Samuel P. Huntington, celebre e discusso politologo statunitense, e del suo libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale.
La modernizzazzione non coincide affatto con l'occidentalizzazione, intesa come l'assimilazione di istituzioni, consuetudini e credenze tipiche del nostro mondo: l'eredità classica, il cristianesimo, le lingue europee, la separazione tra autorità spirituale e temporale, lo stato di diritto, il pluralismo sociale, i corpi rappresentativi e l'individualismo. La modernizzazione ha travolto l'Occidente, subendo un'accelerata dalla rivoluzione industriale in poi. La domanda è molto semplice: qualora i paesi non occidentali intendano percorrere la via della modernizzazione devono passare dall'occidentalizzazione?
Huntington propone una distinzione sulle reazioni dei paesi extra-europei all'Occidente, considerando distintamente occidentalizzazione e modernizzazione. La prima via è il rifiuto totale di entrambi i processi; la seconda è il cosiddetto kemalismo, ossia l'accoglienza di entrambi, rinunciando alla cultura del singolo paese; la terza soluzione è il riformismo, cioè il rifiuto dell'occidentalizzazione e l'avvio della modernizzazione, in particolare industrializzazione, urbanizzazione e istruzione. È interessante focalizzare l'attenzione sul kemalismo, che prende il nome da Mustafa Kemal Atatürk. Egli trasformò con la forza il califfato di Turchia in una repubblica, attraverso l'annullamento della cultura autoctona e sostituendola con la cultura occidentale. Il cambiamento riguardò più il costume che la politica. Kemal Atatürk isitituì il suffragio universale, il calendario gregoriano, l'alfabeto latino, laicizzò lo stato e proibì l'uso del fez. L'obiettivo era l'integrazione della Turchia con l'Occidente e tale progetto fu perseguito dai governi successivi. Il fine ultimo era l'accesso all'Unione Europea, dopo aver ottenuto il passepartout per il Palazzo di Vetro nel 1952. Ma Ankara ricevette soltanto un simpatico "ripassi la prossima volta". Tradita dall'occidente e traditrice della cultura musulmana (quella da cui era fuggita e che era la causa principale del rifiuto da parte dell'Ue, incapace di accettare uno stato islamico nel Vecchio Continente), la Turchia si trovò nel buio, scorgendo un bagliore di luce nella possibilità di allacciare rapporti con le repubbliche ex sovietiche centro asiatiche. In poche parole si è ritrovata sola alla fermata dell'autobus.
L'occidentalizzazione è davvero l'unica soluzione? Gli esempi di Cina e India potrebbero smentire questa ipotesi. Esse hanno intrapreso la terza strada illustrata da Huntington, quella del riformismo. E verrebbe da dire con successo, dati alla mano. Se un governo decide di cambiare la cultura di un'intera nazione da un giorno all'altro, deve comprendere quanti sacrifici si debbano addossare le persone comuni. Dimenticare la lingua, la religione, la cucina, le attività. La vita così com'era fino al giorno prima. Come se non bastasse, questo processo potrebbe anche degenerare se giudicato fallimentare nel lungo periodo. A quel punto l'esigenza di un ritorno alle origini potrebbe sfociare in un'azione violenta volta a cambiare il sistema, con gruppi disposti a pagare prezzi altissimi. Ed è quello che è successo in Turchia. Sono nati gruppi politici e militari, entrambi legati al fondamentalismo islamico, che hanno cercato di scardinare la porta che Kemal Atatürk aveva chiuso definitivamente: quella della cultura di un popolo irrimediabilmente legato a una religione, grazie al quale gli permetteva di avere una maggiore consapevolezza del concetto di esistenza. Dobbiamo davvero arrivare a questo?


Fonte: Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.

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